MODENA

13/03/2019

Mattia Parmiggiani, l' architetto modenese che ridisegna il mondo

MODENA. «Una professione difficile e spesso quasi impossibile. Mi ha sempre affascinato come un’idea realizzata possa modificare lo spazio e vedere le persone che interagiscono con essa». Mattia Parmiggiani non ha dubbi sulla grande responsabilità dell’architetto, in particolare da quando la progettazione è diventata digitale, perché internet ha reso il lavoro di tutti alla propria portata visiva, aumentando fortemente la competizione. «Occorre non lavorare da soli. È una professione che, quantomeno in ambito internazionale, richiede un team di lavoro con know-how specializzato».
 
Parmiggiani si ritiene fortunato di avere uno studio con 10 persone di grande qualità. Una grande famiglia, dove si scambiano informazioni e novità. Una vera ricchezza per “Mattia Parmiggiani Architects”, lo studio, anche di interior design, allestimento, immagine e con un’agenzia di comunicazione integrata, che opera in campo internazionale. Mattia è, tra l’altro, art director di Atlas Concorde, uno dei più importanti gruppi industriali della ceramica.
 
Dal 2009 è Chartered Architect al “Royal Institute of British Architects” di Londra che è l’organismo britannico più importante, simbolo a livello mondiale di eccellenza professionale. Nel 2017 vince il premio “Architect of the Year”, assegnato in Inghilterra agli studi distintisi per l’innovazione. Ogni progetto si fonda sul rigore con una visione creativa che afferma la sua identità di “figlio d’arte”. Infatti, i suoi genitori sono Claudio Parmiggiani e Silvia Guberti. Dal 2010 al 2014 è stato membro della Commissione Edilizia/Qualità del Comune di Modena. Lo studio MPA ha sede in via Emilia Est e dal 2004 ha una partnership con un studio a Mosca. Qui è socio fondatore di Manfriday-MPA Moscow, per gestire e sviluppare progetti in Russia.
 
 
Numerose le sue commissioni all’estero, in particolare in Russia…
 
«Ho avuto la fortuna di lavorare in città russe e soprattutto a Mosca con diverse committenze richieste. Sono stato per alcuni anni consulente del Governo di Mosca, dell’ambasciata Russa per attività governative. Il mio studio è stato selezionato in diverse competizioni internazionali in cui siamo risultati finalisti per realizzare importanti progetti a Mosca, come la nuova sede della Coca Cola, L’Headquarter della Bonduelle, il progetto d’interior per l’Ambasciata Italiana, oltre ad altri progetti di art direction per aziende russe, interventi di hôtellerie, showrooms e commerciali in altre città».
 
Come è riuscito ad approdare in Russia?
 
«La Russia mi ha sempre affascinato fin da piccolo. Sono cresciuto in una casa in cui erano presenti riferimenti alla letteratura, cultura e immagini visive dell’avanguardia Russa. Credo mi abbiano inconsapevolmente portato a pensare a Mosca. Ho cercato di investire molte energie nel trovare occasioni legate alla mia professione in quel luogo. La Russia è un paese difficile da raccontare, sempre in bilico tra grande voglia di primeggiare e un animo melancolico.
L’aforisma di Churchill sulla Russia “… si tratta di un indovinello, avvolto in un mistero all’interno di un enigma” vale più di qualunque spiegazione».
 
Ha portato lo stile italiano o ha seguito quello locale con varianti creative?
 
«La società contemporanea sempre più onnivora, anestetizza in modo inesorabile le differenze dei luoghi, utilizzando una sorta di iperlinguaggio che ne annulla le differenze antiche, cercando di renderli sempre meno speciali.
A mio vedere, portare uno stile non significa solo portare lo stile del design italiano che ci contraddistingue, ma adottare un linguaggio che si innesti nelle radici di un paese, e valorizzi ciò che quel paese ha di proprio e unico, diverso dagli altri. Ogni luogo è come uno strumento musicale che produce un proprio suono. Si tratta di sapere ascoltare».
 
Lavora anche in Giappone, Corea, Cina, Stati Uniti, Israele, Inghilterra, Arabia Saudita, Emirati Arabi… Quali i criteri che guidano un buon progetto?
 
«Non è una questione di stile da applicare in modo seriale, ma di intercettare quanto di più seduttivo possa essere immaginato per quel luogo. Un progetto è di qualità se ti tocca emotivamente. C’è una stretta analogia tra architettura ed anatomia, entrambe fatte di massa, fisicità, sistema muscolare e pelle, per cui il nostro obiettivo è realizzare progetti “vivi” che comunichino una forte carica emotiva. I progetti più interessanti e contemporanei sono quelli più ibridi.
Di recente abbiamo progettato sulla lower Hollywood a Los Angeles un Urban hotel per Millennials con un concept sia abitativo che di lavoro a basso costo, per favorire la condivisione e la creatività collettiva. Ora a Riyadh in Arabia Saudita stiamo realizzando un edificio commerciale di più di 5.000 mq in cui stiamo sperimentando su un layout tipico dei Department stores inglesi l’innesto di un concept innovativo in termini di design degli interni».
 
 
Anche in architettura c’è più spazio all’estero?
 
«Soprattutto in architettura. In Italia non è una questione solo di opportunità, ma un nodo politico. La Great London Authority a Londra, l’Urban Regeneration di Barcellona, il mixing use di Berlino, tra i tanti esempi che si possono fare, hanno sempre usato l’architettura o meglio la pianificazione legata alle esigenze dei cittadini come proposta politica. Non vedo esempi così chiari in Italia».
 
Qual è l’obiettivo fondamentale dell’architetto?
 
«L’architettura ha una logica molto complessa, può favorire o danneggiare i cambiamenti della società. In un mondo globalizzato che viaggia a velocità “Dromologica” come teorizzava Paul Virilio verso l’internet delle cose, progettare in modo contemporaneo significa soprattutto fare sperimentazione e che tale sperimentazione serva a dare maggior risposte e senso al modo moderno di vivere. Se da una parte i nostri primi progetti erano po’ minimalisti, poi sono sempre più diventati ricchi di elementi sensoriali. La società contemporanea vive nel caos e per questo ha bisogno di visioni più dinamiche elastiche e liquide, con sistemi sempre più intrecciati e soprattutto seduttivi».
 
Quale stile si impone adesso alle costruzioni? Il postmoderno è ancora in voga? Si punta più alla funzionalità o all’estetica, alla rigorosità o all’eclettismo?
 
«Viviamo in un era contraddistinta dal “Pluralismo Moderno”, in cui le immagini visive sono sempre più il sistema di riferimento e anche i progetti di architettura si misurano maggiormente su questo terreno. Se da un lato all’architetto viene richiesto di creare luoghi attrattivi, dall’altra la competizione estetica è ormai il terreno di gara».
 
Si costruiscono sempre nuove case. Non sarebbe meglio qualificare l’esistente? C’è un modo per umanizzare l’edilizia?
 
«È assolutamente anacronistico continuare a costruire espandendo la città in periferie, con un consumo del territorio irragionevole come se fossimo ancora nel dopoguerra. Lo sviluppo della città futura dovrebbe essere maggiormente centripedo e non centrifugo, sostituendo parti urbane obsolete con nuovi modelli contemporanei e sostenibili come stanno facendo da tempo diverse città europee».
 
 
Cosa va o non va a Modena?
 
«Modena pur non essendo una città “metropolitana” ha comunque raggiunto standard di eccellenza legati ad un discreto numero di imprese di qualità, presenti sul territorio, e innovative nel settore digitale. Il futuro della città sta nel massimizzare la rigenerazione urbana in modo da restituire nuovi luoghi per i cittadini, potenziare il verde urbano e costruire le infrastrutture per renderla una Smart City».
 
Per i grandi progetti Modena ha chiamato le archistar straniere (Gehry, Krier, Botta…). In Italia non ci sono personaggi di grande statura?
 
«Non vedo problemi e non sono abituato a difendere una causa italiana. Viaggiando spesso, osservo che qualunque città moderna ospita edifici realizzati da architetti internazionali. Trovo in questo un maggior elemento di arricchimento e valore per un luogo. Serve però un’attenzione politica a lungo respiro quando si commissiona un grande progetto e va scelto, a mio avviso, uno studio internazionale o nazionale che abbia un idea evoluta sul contemporaneo».
 
Si arriverà ad una soluzione per il progetto di Gae Aulenti per l’ex ospedale S. Agostino?
 
«Nessun commento, se non quello sull’importanza di chiamare un architetto che abbia una visione strategica ed emozionale del progetto. Che in questa circostanza non ho visto tanto».
 
I progetti più originali a cui è affezionato?
 
«A Mosca abbiamo appena inaugurato la sede della Bonduelle, multinazionale francese dell’alimentazione biologica, con uno spazio uffici di più di 2000 mq, tra serre, coltivazioni di prodotti dell’orto all’interno degli uffici e isole a vegetazione verde tra meeting di lavoro. Uno spazio olistico ricco di sollecitazioni sensoriali e di benessere lavorativo. In questi giorni stiamo sviluppando a Reggio Emilia l’ampliamento di un nostro precedente progetto, un edificio all’interno di un ex centro commerciale che vende on line, stile Amazon prodotti religiosi. A Roma all’interno della sede dell’Ambasciata Russa sono stato incaricato dal Governo Russo e dalla Chiesa del Patriarcato di Mosca di seguire la direzione lavori della più importante chiesa Ortodossa in italia. Un’esperienza lavorativa ed umana molto toccante».
 
Quale l’idea di casa del futuro?
 
«Una casa sempre più flessibile e aperta ad accogliere attività impreviste, come un laboratorio dove si possa lavorare e vivere senza barriere».
 
Come si riesce a creare?
 
«Un importante fashion designer come Paul Smith diceva che si può prendere inspirazione da qualunque cosa, basta saper guardare».
 
Michele Fuoco
Gazzetta di Modena, 13 Marzo 2019